La sua vita operativa in orbita dopo il lancio doveva essere solo di qualche ora, ma per circa quindici giorni il suo segnale, carico di dati scientifici, è stato forte e chiaro. Questa la missione di Astrobio Cubesat (ABCS) un nanosatellite realizzato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) l’Istituto nazionale di Astrofisica (INAF) e la Scuola di Ingegneria Aerospaziale (SIA) della Sapienza Università di Roma, responsabile dello sviluppo, integrazione e operazioni della piattaforma, coadiuvata dall’Università di Bologna (UniBO) per la predisposizione dell’esperimento.
Astrobio CubeSat è stato il primo dei passeggeri secondari rilasciati dopo il satellite di ASI “LARES2” a circa 6000 km di quota dal nuovo lanciatore europeo VEGA-C, decollato lo scorso 13 luglio dalla base spaziale europea di Kourou nella Guyana Francese.
Come evocato dal suo nome, la missione di Astrobio, il cui corpo principale misura 30 cm x 10 cm x 10 cm, ha avuto l’obiettivo primario di eseguire un esperimento di rivelazione di molecole organiche utilizzando un laboratorio ultra compatto (Lab on Chip) in condizioni rappresentative di una missione spaziale. La sua fase operativa può considerarsi quindi terminata ma è stata ben superiore al previsto. Oltre che in condizioni di microgravità, l’esperimento è stato effettuato in un ambiente orbitale, comprendente una zona ostile come le Fasce di Van Allen interne, caratterizzato da un flusso di particelle cariche e molto energetiche, quindi con dosi di radiazioni notevolmente superiori a quella naturalmente presente sia sulla Terra e molto simile a vari ambienti di spazio profondo.
“Questo progetto rappresenta la prosecuzione e validazione in orbita di quanto sviluppato e testato in laboratorio nell’ambito progetto PLEIADES, una collaborazione tra ASI, SIA e UniBO portata avanti tra il 2016 e il 2019 – spiega Simone Pirrotta, Project Manager della missione Astrobio e anche di PLEIADES. – Con questo ulteriore step di verifica di robustezza e versatilità, il dispositivo si candida a diventare uno strumento a disposizione dei futuri esploratori robotici e umani, ai quali sia utile o di interesse rilevare la presenza di molecole organiche nell’ambiente circostante”.
Credit foto: INAF